Figli di un Dio minore: capitale umano, identità di genere e orientamento sessuale.
Nonostante siano trascorsi quasi quarant’anni dalle prime formulazioni e teorizzazioni sulla gestione delle diversità nel capitale umano, il diversity management rimane ancora una politica non pienamente conosciuta e applicata e soprattutto esistono notevoli differenze di applicazione tra i diversi paesi. Esiste poi una forma di discriminazione che cadendo nel silenzio e nell’invisibilità, continua a creare dei risvolti pericolosi per il rispetto dei diritti delle minoranze e dei lavoratori più vulnerabili. Per questo ho ritenuto di dedicare questo articolo al tema dei lavoratori LGBT e alla loro richiesta di riconoscimento.
Per una migliore comprensione, la scorsa settimana ho lanciato, sulle mie pagine social, un piccolo sondaggio, in cui chiedevo quanti dei miei lettori conoscessero il significato dell’acronimo LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender). Circa il 30% dei partecipanti ha dichiarato di non conoscerne il significato e ciò non mi ha colta di sorpresa, anzi, ha confermato la mia ipotesi sulla necessità di approfondire l’argomento in relazione alle risorse umane presenti nelle nostre aziende. Infatti quando si parla di diversità nelle risorse umane, l’identità di genere e l’orientamento sessuale sembrano due temi ancora molto trascurati e diventano potenzialmente causa di discriminazione, malessere e svalutazione nelle persone direttamente coinvolte e nei contesti organizzativi. E’ una tematica dove niente può essere dato per scontato e dove niente può trovare un’etichetta o una rigida categorizzazione. Se il processo della categorizzazione sociale aiuta, come meccanismo della mente umana, a farci trovare un orientamento e un ordine nella realtà che ci circonda, esso fornendo terreno fertile per la nascita di stereotipi e pregiudizi produce divisione e incomprensione. Ciò è ancora più vero se ad essere racchiusi forzatamente all’interno di categorie sociali e ad essere stigmatizzati sono individui di cui si ignorano le peculiarità e si disconoscono i bisogni.
Il target LGBT include persone che si differenziano tra loro per identità di genere o per orientamento sessuale. Si tratta di una minoranza di lavoratori portatrice di grande eterogeneità e per questo di grande valore. Al di là della visione dicotomica del genere, che considera l’identificarsi come donna o uomo per via del comportamento sessuato e socialmente associato alle due categorie, l’identità di genere oggi è considerata in tutte le sue sfumature e percezioni. Possiamo quindi definire individui cisgender, coloro che si identificano in un genere corrispondente al sesso biologico, transgender coloro la cui identità di genere non corrisponde al sesso biologico, genderqueer coloro che non si identificano in nessuno dei due generi o si percepiscono come una combinazione di genere maschile e femminile. L’orientamento sessuale, invece, prescindendo dal genere, identifica l’attrazione emozionale, romantica o sessuale di una persona verso individui di sesso opposto, dello stesso sesso o di entrambi.
Su queste categorie di lavoratori cala un silenzio discriminatorio, giustificato il più delle volte da una forma di rispetto per una condizione considerata “diversa”. Solo negli ultimi 20 anni sembra contemplarsi una ricerca e un’attenzione più accurata, ma come si evince dalla letteratura scientifica e dalle fonti giornalistiche, l’Italia è uno dei paesi in coda nell’adeguarsi alle politiche di inclusione e al riconoscimento dei diritti.
Cosa succede nelle aziende italiane?
Dichiarare nel luogo di lavoro il proprio orientamento omosessuale, oppure un’identità di genere non aderente alla dicotomia uomo/donna, porta con sé un timore di subire discriminazioni e disparità nel trattamento e nelle opportunità di carriera. Oltre al rischio di sperimentare atti di bullismo e violenza morale. Quando si interviene nel voler comprendere la condizione dei lavoratori LGBT nelle nostre organizzazioni, sono controverse le posizioni degli studiosi nel sostenere la tesi dell’incoraggiare il coming out delle persone omosessuali e transessuali sul posto di lavoro allo scopo di far sentire la loro voce e manifestare i loro diritti. Così come sono controverse le posizioni dei lavoratori intervistati.
Da un lato poter manifestare liberamente la propria identità e orientamento sessuale metterebbe i lavoratori LGBT nella stessa condizione dei lavoratori cisgender ed eterosessuali che costituiscono la maggioranza del loro colleghi all’interno dei contesti aziendali, quantomeno per ciò che riguarda la possibilità di esprimere disinvoltamente i propri vissuti quotidiani e le proprie esperienze. Dall’altro, il quesito posto da alcuni studiosi così come dai lavoratori è: perché un omosessuale o un transessuale per poter ottenere riconoscimento e pari dignità dovrebbe rendere pubbliche le proprie inclinazione e preferenze sentimentali e sessuali o rendere nota la percezione personale della propria identità sessuale e di genere? Ancor più se questo vissuto comporta un sentimento di disagio.
Ciò in cui invece ricercatori, psicologi del lavoro e responsabili delle risorse umane sono concordi, è il fatto che ad oggi ci sia una scarsa conoscenza dell’argomento nella società in generale e nel mondo del business in particolare.
Nei paesi occidentali e industrializzati, un individuo trascorre gran parte della propria giornata sul posto di lavoro e ciò implica una percezione di sé prevalentemente come sé-lavoratore o sé-professionista. L’identità professionale pervade la nostra vita, il linguaggio, i discorsi e le relazioni sociali più di ogni altra dimensione personale. Il luogo di lavoro diventa quindi contesto in cui l’individuo crea relazioni amicali e scambi di esperienze. Un contesto che deve essere in grado di offrire pari opportunità di ascolto e accoglienza delle esperienze individuali prescindendo dal genere o dall’orientamento sessuale di chi le esprime. Ma il presupposto perché questo si possa verificare, è che le organizzazioni adottino tutti gli strumenti di conoscenza e inclusione a favore dei propri collaboratori. E’ la carenza di questo presupposto a far sì che un lavoratore LGBT non si senta libero di manifestarsi con i propri colleghi e dirigenti, e non il diritto che argomenti privati come la propria sessualità o vita di relazione siano taciuti sul luogo di lavoro. Esiste quindi una necessità di maggiore conoscenza e di più attenta implementazione delle pratiche di inclusione.
L’area di sviluppo è proprio la conoscenza, anche tramite gli strumenti offerti dal web e dai social networks, che offrono un’opportunità di scambio informale sia nei contesti amicali che aziendali. Ma per ciò che riguarda gli strumenti formali e strutturati, il diversity management emerge ancora una volta come politica efficace e strategica per l’emersione e la valorizzazione delle diversità, dei talenti, delle opportunità, con vantaggi apprezzabili sia per la qualità di vita del singolo lavoratore che per il benessere organizzativo.
Corinne Vigo